Storia e leggenda del fiero Ghino e delle sue avventure
Lungo una fangosa carraia nei pressi di Torrita di Siena, negli anni settanta del XIII secolo, un mercante senese è in viaggio per lavoro col suo seguito di familiari, sopra un carro ricolmo di panni di Fiandra. A un tratto, una decina di uomini a cavallo armati fino ai denti circondano la carovana e intimano loro di fermarsi: chiedono solo collaborazione. Il capo della banda, sotto il persuasivo tiro delle balestre, ordina ai figli, Ghino e Turino, di frugare il carro. Vengono requisiti un paio di borse e uno scrigno d’oro e d’argento, assieme ai preziosi tessuti, giusto per rendere il viaggio più leggero a tutti. Esatta la “gabella”, la banda si allontana cavalcando a briglia sciolta.
La “Banda dei quattro”
È il modus operandi della Banda dei quattro, che in Val di Chiana opera ai danni dei ricchi e incauti mercanti senesi. Si tratta dei membri della nobile famiglia ghibellina dei Cacciaconti, signori della Fratta, il padre è il nobiluomo Tacco di Ugolino, gli altri sono il fratello Ghino e i due figli Turino e Ghino. A parte il sostentamento della famiglia, bandita dal sistema di potere cittadino, le rapine simboleggiano la resistenza politica contro la parte guelfa, ormai imperante a Siena, il cui fulcro è la borghesia cittadina imprenditoriale e mercantile. Italia dei Comuni, gli Svevi sono stati sostituiti dagli Angioini e il ghibellinismo sta volgendo al termine. Le città-stato toscane cadono in sequenza sotto lo strapotere fiorentino, e l’antica nobiltà, tradizionalmente ghibellina, se la passa sempre peggio. Gli ultimi leoni feriti sono gli Uberti, gli Ubaldini, i conti Guidi, e tra loro, Ghino di Tacco.
Ghino di Tacco, il brigante gentiluomo
La figura del brigante-gentiluomo ha da sempre affascinato l’immaginario collettivo. Robin Hood è un mito, una leggenda, mentre la vita di Ghino di Tacco è invece assolutamente reale, tanto da essere citata da Dante Alighieri, suo contemporaneo, nella Commedia, e da ispirare una novella nel Decamerone di Giovanni Boccaccio.
Piazza del Campo a Siena, anno del Signore 1285. La folla, con grida di scherno, si accalca intorno alla forca: “Maledetti ghibellini! Infami traditori!” urla. Tacco e il fratello Ghino stanno per essere giustiziati. I figli, Ghino e Turino, perché troppo giovani, saranno risparmiati. Tra le autorità presenti, il giudice aretino Benincasa da Laterina, che ha emesso la sentenza. I due corpi adesso penzolano inanimi dai capestri, ma Ghino di Tacco non dimenticherà mai il volto del magistrato, e giura eterna vendetta.
Il Robin Hood toscano
Intorno al 1290, così come Robin Hood si rifugia nella foresta di Sherwood, Ghino di Tacco, insieme al fratello Turino occupa il castello di Radicofani, sulla linea di confine tra il territorio di Siena e quello di Orvieto, in posizione dominante sulla Val d’Orcia e sulla via -Francigena. Sulla torre principale sventola il vessillo con lo stemma di Ghino: un anello d’acciaio assicurato a quattro catene, simbolo di forza, in campo rosso. Il Falco di Radicofani piomba con la sua schiera di banditi su chiunque transiti sulla via Francigena sottostante il castello. Ghino di Tacco tuttavia dimostra di essere un signore per stirpe e stile: i membri delle famiglie patrizie vengono derubati, sequestrati e rilasciati solo dietro ingenti riscatti, mentre pellegrini sono invece risparmiati dalla sua benevolenza. La violenza è un’eccezione e non ne abbiamo cronaca, ai derubati viene concesso l’occorrente per proseguire il viaggio, mentre chi rimane prigioniero in attesa di riscatto è rifocillato al castello.
La vendetta di Ghino di Tacco
Sulla fine del XIII secolo, Ghino di Tacco alla testa di 400 uomini percorre la via Francigena fino a Roma, per arrestarsi solo davanti al Campidoglio. Dentro si trova Benincasa da Laterina – il magistrato che ha condannato a morte il padre e lo zio -, che nel frattempo è stato nominato giudice della corte di papa Bonifacio VIII. Ghino sfonda la porta d’ingresso del palazzo e lo trova seduto dietro una scrivania: lo fa agguantare da due uomini che lo scaraventano in ginocchio davanti a lui. Poi, con la spada appartenuta al padre, lo decapita. La testa viene infilzata su una picca e issata sulla torre più alta di Radicofani, dove vi rimane in esposizione per qualche mese.
Il rapimento dell’abate di Cluny raccontata nel Decamerone
Se Dante Alighieri è rimasto impressionato da questa storia, tanto da narrarla nel Purgatorio, Canto VI, Boccaccio è stato ispirato da un’altra narrazione, vedi II novella del X giorno del Decamerone, quella del rapimento dell’abate di Cluny.
L’abate di Cluny, uno dei più ricchi e potenti monasteri benedettini d’Europa, ospite in Vaticano, ha ecceduto nei bagordi e adesso soffre di mal di stomaco e di gotta. Cerca ristoro alle terme di San Casciano dei Bagni, ma lungo la via Francigena, presso Radicofani, viene preso prigioniero da Ghino di Tacco assieme a tutto il suo seguito e alle sue sostanze. Il bandito si mostra gentile e gli prescrive una dieta secondo lui infallibile: prima digiuno assoluto, solo acqua da bere, poi fave e pane innaffiato dalla Vernaccia di San Gimignano. Dopo qualche settimana l’abate guarisce. Ghino lascia libero il suo illustre ospite di tornare a Roma dal papa e di narrare la sua incredibile storia.
Il perdono di Bonifacio VIII
L’abate di Cluny s’inginocchia allora ai piedi di Bonifacio VIII e gli racconta di un vero gentiluomo, dai metodi poco ortodossi, ma cavalleresco, caritatevole e altruista. La sua intercessione vale il perdono papale a Ghino di Tacco che viene addirittura nominato Priore dell’Ordine degli Ospedalieri di San Giovanni, attuale Ordine dei Cavalieri di Malta.
Dell’ultimo periodo della sua vita si sa purtroppo ben poco. Quanto alla morte di Ghino di Tacco, la tesi più accreditata lo vuole cadere in un agguato a Sinalunga, in Val di Chiana, per mano di assassini di una fazione avversa.